A mio giudizio questo libro è forse l’opera più responsabile di Virgilio Carnisio il cui sensibile temperamento ha questa volta indugiato sugli aspetti più difficili della realtà valsesiana di oggi. Quelli che più di tutti ci fanno sentire nel contempo colpevoli e consapevoli. Queste immagini sono forse, purtroppo, lo studio finale di un’evoluzione cominciata già da molto tempo, il drammatico risultato di mutamenti socio economici durati quasi un secolo. Il grido: La Valsesia si spopola lanciato da Mario Spanna, al termine della prima guerra mondiale, risale ad un momento in cui il fenomeno apparve eclatante, quando, terminati gli sconvolgimenti e i dolori della guerra, gli animi poterono riflettere attentamente sulle cose di casa propria ma, in realtà, quella preoccupazione era stata anticipata molto tempo prima da studiosi illustri come il Cusa, il Sottile, il Lizzoli per non citarne che alcuni. Il modello socio antropologico della Valsesia era del tutto particolare: mancanza di risorse, agricoltura povera, senza impiego dell’aratro e per lo più operata dalla donna. Su tutto dominava l’alluvionale fenomeno dell’emigrazione maschile. Emigrazione, però, temporanea e stagionale e, quindi, in un certo senso, arricchente con l’investimento in patria dei guadagni ottenuti all’estero. Forse la figura dominante era proprio quella della donna: oberata di molteplici fatiche, sola, abituata a notevoli decisioni individuali. Pure tutto questo mondo aveva trovato e supportato il proprio modello antropologico e culturale. Una forte spiritualità testimoniata dallo splendore della sua tradizione artistica, una solidarietà montanara che portò al fiorire delle confraternite assistenziali (la Confraternita del pane, del panno, ecc…). D’altra parte un nostalgico attaccamento al paese natio reso più forte dalla continua lontananza, un alto grado di alfabetismo dovendo giocoforza corrispondere per iscritto con congiunti lontani, la necessità dell’apprendimento di un’arte o di un mestiere per trovare lavoro all’estero. Credo che quest’opera di Carnisio sia la testimonianza struggente di tutto ciò che è rimasto di quel mondo. Su tali vestigia il suo obiettivo si è soffermato con vivo realismo e con decisione chirurgica, e questo progetto darà molto da pensare, indubbiamente. Decenni di sforzi, di speranze, di tentativi sembrano essere stati parzialmente inefficaci. Si fa un gran parlare oggi di rispetto delle destinazioni socio economiche, ma queste immagini, purtroppo, lasciano perplessi. Recentemente sono stato in una bella baita rimodernata e riattata da un amico cittadino. La classica seconda casa» oggi desiderio di tanti. Mentre sedevo ammirando l’opera di arredatori, improvvisamente mi sono accorto di essere circondato da una folla di fantasmi. Erano spettri che parlavano solo ad iniziati, tant’è che i miei gentili ospiti non ne avvertivano la presenza. Vagavano qua e là con aria interdetta Uno si mise ad armeggiare con quell’arnese che serve a far scaturire scintille per accendere i fornelli a gas. Un altro mi invitava per una recita» a casa sua per sbucciare noci. Faceva capire che un rifiuto era inammissibile. Una vecchietta si mise a raccontarmi una lunga storia di confini e di vicende legali che si trascinava da anni avanti al Tribunale di Varallo. Nel racconto figuravano il giudice Bevilacqua, il causidico Andrea Peco, l’avvocato Regaldi. Un fantasma si era appollaiato davanti alla televisione. Una gara di discesa sembrava non interessarlo affatto, mentre le sequenze di un incontro di base ball to mandavano in visibilio. Diceva che era il suo sport preferito. Solo che lui lo chiamava lippa» Vi era chi lamentava che alcune vicende storiche gli avevano impedito di terminare la decorazione di una sala dell’Hermitage a Pietroburgo La sua specialità era il marmo finto. Un altro si vantava di avere servito in un banchetto a Parigi, non so più quale celebrità dell’epoca Quasi tutti rinviavano le cose più importanti della loro vita (affari, compere, incontri) al prossimo mercato a cui sarebbero scesi a Varallo. Altri invece continuavano a parlare dell’Ortigara e del Monte Nero. Un giovanotto aveva l’aria di avere appena conseguito la laurea. Ostentava il diploma di scultore del Laboratorio Barolo. Nel limpido commento a questo libro, Pier Paolo Graziani, con la sua prosa ricca di immagini, ha parlato di agricoltura della sopravvivenza»: ciò mi sembra esatto oltre ogni dire. Quale sarà nei meandri del loro inconscio la molla che spinge questi ultimi montanari della Valsesia a rimanere abbarbicati ai modelli di vita originari? Qual reminiscenze storiche possono avere agito sulla decisione di continuare quella vita e quegli schemi? Quali legami, quali memorie e quali affetti? Quali incapacità di trasformazione e, d’altro canto, quale forza conservatrice? Tutto ciò, forse, esprime una dimensione in cui passato e presente, tradizione e volontà di sopravvivenza st fondono in un crogiuolo quasi cosmico Simboli, totem, paradigmi sembrano costituire lo sfondo di questa avventura umana l’acqua, la pietra, la gerla, il ponte, la beola. Volti imperscrutabili, gli stessi che posarono per il Tanzio e per il Gianoli. Gli stessi volti degli innumerevoli affreschi minori delle vallate Valsesiane. Le foto di Carnisio sono cariche di un eloquente messaggio. Direi che sono l’esaltazione di quanto vi è di più nobile nell’anima montanara la forza, la calma, la pazienza, la capacità di soffrire. Penso infine che questa nuova opera: Valsesia del silenzio abbia un grande significato augurale. L’augurio che la nostra generazione possa vedere questa valle risalire la china, che alpi abbandonate possano rivivere. Che si riaccendano spenti focolari. Che baite e paesi risuonino di grida giovanili, che a tutto questo mondo insomma venga ridato un futuro.
Enzo Barbano