Il fascino del ricordo, del passato è tale perché ci offre la possibilità di comprendere la nostra storia, di stringere ancora dentro per un attimo un viso, un luogo, un profumo, una voce, ormai lontani nel tempo, ma sempre desiderosi e assetati di riemergere per riprendersi ciò che gli spetta, anche solo per un istante.
Quante volte ci è capitato di ritornare nei luoghi dove abbiamo trascorso parte della nostra vita, ripercorre la strada, fermarsi davanti alla casa ed entrare con la forza della memoria negli spazi che hanno visto il fisico trasformarsi, modificarsi nell’aspetto e la mente nutrirsi dell’esperienza del quotidiano. Una malinconia, un rimpianto del passato che veste le forme di un sottile piacere, un’immagine impallidita, solo accennata, che riemerge ad un tratto tra le righe di un libro sfogliato, una musica confusa, una lettera impolverata o una fotografia sciupata. È la fotografia lo strumento, il mezzo del quale in prevalenza Giovanni Sesia si avvale, per condurci nel viaggio della memoria, per raccontare con una sensibilità apicale, quasi destabilizzante, l’universo del ricordo, quella reminescenza umana di cui avvertiamo costante necessità.
Con una disinvoltura sorprendente Sesia riesce a ripercorre e accedere agli eventi, alla storia privata dei singoli uomini, alle cose, lasciandosi carpire a tal punto da restituirceli come eventi da noi vissuti, come persone realmente conosciute, quasi familiari e di cui non possiamo fare a meno che desiderare intensamente alcuni degli oggetti a loro appartenuti, per conservali in eterno.
La passione di Giovanni Sesia per la figura umana ha origini molto remote, già da quando frequentava l’Accademia di Brera a Milano; l’utilizzo del colore è stato il primo amore, che non abbandonerà neanche in seguito, anche se negli anni Giovanni diviene sempre più attratto dal mezzo fotografico e specificatamente del reperto fotografico.
Inizia così una ricerca smaniosa nei luoghi della memoria, soprattutto all’interno dei manicomi psichiatrici, e in special modo in quei luoghi dove le persone venivano “rinchiuse” prima della legge Basaglia del 1978.
Una volta individuata l’immagine, il negativo viene stampato prevalentemente in grandi dimensioni e in bianco e nero per poi essere applicata sul supporto. A questo punto l’artista interviene direttamente sull’immagine con una velatura color seppia come a voler porre il soggetto nel limbo del tempo immobile, dotandola di eternità e ancorandola tramite i ricordi nella memoria dell’astante. Il lavoro prosegue con la scrittura, un racconto a tutta pagina, che si alterna tra una grafia più marcata e una appena accennata, proprio come i ricordi nella mente. Parole incomprensibili, volutamente illeggibili, che ci riportano alla memoria quelle pagine dei vecchi quaderni ritrovati nei solai o nelle cantine durante i traslochi o quando da bambini “frugavamo” nei cassetti a casa della nonna. Sono queste le sensazioni, le emozioni che Giovanni Sesia, vuole e riesce a suscitare, un racconto onirico, sfumato tra la fotografia, il colore e la scrittura, che pare diventare parola, voce sussurrata dal volto ritratto, quasi a volergli donare ancora forza comunicativa, espressiva in modo che possa raccontare le tribolazioni di una vita, i momenti di serenità e di gioia. L’attimo rimane tale, ma è per sempre; è un racconto dell’umano pensiero, un diario lungo una vita, con parole lontane, ormai quasi illeggibili, ma tutte con un loro ricordo. Scorre il tempo sulla tela, creando una ragnatela di sequenze visive, connesse dalla velatura dello scritto.
Come abbiamo detto, buona parte della ricerca di Sesia si concentra sull’escluso, sull’emarginato e su chi un tempo veniva rinchiuso perché magari più sensibile e quindi diverso rispetto alla “normalità” o perché semplicemente solo nel mondo, abbandonato. Finalmente negli anni, grazie a persone che hanno dedicato la loro vita a questa battaglia, è cambiata la modalità per affrontare le problematiche mentali e soprattutto si è modificata l’assistenza o il modo di relazionarsi con chi bisognoso di cure.
Ecco che queste opere sembrano restituire la dignità perduta, negata negli anni, pare che finalmente queste persone possano comunicare con il mondo, con i propri simili, senza dovere vagare in compagnia della “sola solitudine”. Il dolore rende folli, e molte di queste persone hanno sofferto moltissimo a causa della società, di chi non volendo vedere, non volendo affrontare i problemi preferisce chiuderli dietro una porta. In queste opere assistiamo a una ricostruzione, a volte forzatamente, ma anche volutamente frammentaria e reiterata di momenti, di riflessioni e di stati d’animo in cui la mente può ritornare su se stessa e provare in prima persona quanta è stata la sofferenza e fare in modo che questa macchia di disonore non si ripeta mai più. Quello che colpisce maggiormente di queste persone sono gli sguardi, a volte apparentemente distanti, ma sempre presenti; occhi che ascoltano, cercano il dialogo, uno scambio umano, nonostante siano state annullate e private della loro identità, sostituita da un numero, che si ripete sull’opera, come un tarlo nella mente.
Le immagini fotografiche non sono solo quelle di chi ha sofferto perchè relegato dalla collettività, ma anche fotografie di persone, gruppi o singoli individui del quotidiano vivere, recuperate da Sesia nei luoghi più disparati. Un volto si legge nelle pieghe delle sue espressioni, un volto non è solo la compiutezza dei suoi tratti ma la sua originale mutevolezza, la sua allergia alla fissità d’espressione, l’infinita possibilità di estrinsecazione accompagnata da innumerevoli piccole variazioni. I soggetti delle opere diventano anche gli oggetti della vita quotidiana, appartenuti prevalentemente alla storia dello stesso artista. Ecco che il lenzuolo appartenuto al padre così come una vecchia macchina fotografica, e ancora un materasso piegato e abbandonato, una carrozzina, un vecchio triciclo, un’antica macchina da scrivere, per poi immergersi direttamente all’interno della casa di Sesia, una volta luogo di vita del padre. La volontà determinata dell’artista conserva questo luogo, facendolo vivere, respirare, vivendone i ricordi; ma è anche origine dalla quale poter trarre ispirazione per abbandonare lo spazio intimo e familiare per addentrarsi in uno orizzonte differente, estraneo, inesplorato e a volte pericoloso, certamente fonte unica di esperienza mistica.
Alberto Mattia Martini