«Ho iniziato a fotografare all’età di 8-9 anni con una Voigtländer piccolina, a soffietto, regalatami da uno zio. Allora mi piaceva spigolare, prendevo degli appunti per crearmi un archivio di
immagini. All’inizio dell’ultima guerra sono stato in Ungheria con due amici di Bergamo, ospite di un’università per stranieri, e qui ho fatto le prime foto a colori con la pellicola Agfa. Daquest’esperienza ne è nato un libro, il mio primo libro fotografico: “Terzetto in Ungheria”, dove hopresentato delle immagini, che mi hanno entusiasmato, dell’ultima processione di S.Stefano in
Buda vecchia il 15 Agosto. Al mio rientro in Italia, ho fondato a Varese, dove ero sfollato,l’associazione culturale italo-ungherese. Proprio a Varese ho iniziato la mia attività di giornalistaentrando nella “Prealpina”, quotidiano locale. Nel frattempo mi interessavo di una zincografia, dicui ero comproprietario e di cui curavo la parte fotografica per la riproduzione dei cliché in zinco.
Durante l’ultimo periodo della Prima Repubblica di Salò, ho aderito al Partito d’Azione e con degliamici stampavamo un giornale clandestino “Gli Annunciata”. A 21 anni, dopo la liberazione, presiin mano il quotidiano la “Prealpina” che diventò il “Corriere Prealpino” stampato per la prima volta
in piana. Per due anni feci il caporedattore; poi intervenne la mia famiglia che non considerava il giornalismo una professione dignitosa e sono entrato, come dirigente commerciale, in un’industria
siderurgica. Ho però continuato a impegnarmi nel filone culturale intrapreso perché sono persuaso che gli uomini della mia generazione del Nord Italia hanno mancato a degli appuntamenti ben precisi dopo il periodo “eroico” della Resistenza. Ad un certo punto ho lasciato la fotografia per dedicarmi al cinema. Nel ‘52-’53 ho realizzato due cose importanti: “La Scuola Bianca”, cioè la nascita di una scuola di sci in alta montagna a Ponte di Legno e “Il Casellante”, la storia del custode di uno dei caselli della ferrovia Milano-Genova, vicino a Pavia, dove quest’uomo viveva
poveramente in una casa bombardata dal rumore dei numerosi treni che passavano e dagli insulti della gente ferma al passaggio a livello chiuso. Fare del cinema, per me, è sempre stata un’occasione per uscire dallo stress della vita, dal consumismo che cominciava a fagocitarci. Nel
’57 ho colto l’occasione di fare la mia prima mostra circolante di fotografie sullo sci nautico. Una mostra con una sua fisionomia ben precisa in contrapposto al divagare delle immagini “smiling” della caramellosa fotografia pubblicitaria che si usava allora in America. Inaugurata a Milano, in seguito, è stata portata laddove si effettuavano gare importanti, tra cui i “Campionati d’Europa”.Assieme ad Umberto Eco ho collaborato, per la parte visiva, al libro di un prete operaio, Edgardo
Rossi “io sono un cristiano”, una specie di Vangelo per gli operai, dove ho cercato di fare delle fotografie che potessero sostituire la vecchia iconografia classica della trinità, di Dio, di Gesù: immagini di impegno sociale, più vicine alla realtà di oggi. Verso la fine del ’64 sono stato chiamato a dirigere Popular Photography Italiana che, in quel particolare momento, stava andando male. Eraun rischio molto grosso che ho accettato con l’entusiasmo di sempre e, adagio adagio, hotrasformato la rivista. Il continuo contatto con i fotografi mi aveva portato a capirli, perché si sentivano snobbati o addirittura neanche presi in considerazione dagli operatori culturali, dagli stessi editori, per cui mi sono reso conto che era il momento di poter creare una galleria, cioè una base di appoggio, un punto di incontro che li inserisse nei canali classici dell’arte.
Nel ’67 è nato “Il Diaframma”, prima galleria privata al mondo dopo la “291” di New York. Il Diaframma è il completamento della rivista, non è mai stato sostenuto da nessuno e non ha un ritorno se non con una limitata vendita di libri. E’ aperto a tutti i fotografi sia ai più giovani cha agli affermati; questi ultimi per dare uno stimolo, per essere pietra di paragone, per essere storia della fotografia: Henri Cartier Bresson, Robert Capa, Werner Bischop, André Kertész, Lee Friedlander. Tutti i fotogiornalisti italiani vi hanno esposto le loro opere; Antonioni stesso ha presentato la documentazione di “Blow up”. La galleria è divisa in due piani, nella parte sotto, non perché sia meno importante, ma perché essendo una “cave” aveva già il sapore dell’underground, abbiamo
cercato di riservarla ai giovani per dare loro la possibilità di farsi conoscere. Uno degli scopi del Diaframma è di essere un punto di partenza per delle mostre itineranti che facciano conoscere i fotografi italiani all’estero. Oggi siamo arrivati alla 170a mostra .
Nel ’68 ho avuto l’incarico di curare la parte culturale del SICOF, salone merceologico di prodotti di cine, foto, ottica. Ho organizzato una media di 25-30 mostre di fotografie per volta di estrazione diversa; da una parte tenevo conto del valore estetico, del divertimento sempre però con un certo tipo di impegno,
dall’altra aumentavo man mano la parte storica e sociologica». “La Fotografia: per me è stato investire emozioni e denaro non attendendo ritorni, questo mi
dà gioia ancora oggi: un modo sicuro di leggere le persone, quindi la vita. Investire un patrimonio per darlo ed essere felici. Nel corso della mia vita ho visto molti luoghi, inseguito molte passioni, realizzato molti sogni e conosciuto moltissime persone. Ripercorrendo ora gli anni con la memoria, scopro che non è difficile per me ricordare e raccontare quello che accadde, perché tutto quello che ho fatto allora e come l’avessi appena vissuto. Ogni viso, ogni scoperta, ogni emozione, è presente come in uno specchio, lo specchio della mia memoria. E in me è nato il desiderio di scrivere questi ricordi come dono a quanti mi hanno
conosciuto e hanno condiviso con me la grande passione per la Fotografia”
(LANFRANCO COLOMBO. Fotogrammi di una vita. Allemandi & C, 2010).
Rossi “io sono un cristiano”, una specie di Vangelo per gli operai, dove ho cercato di fare delle fotografie che potessero sostituire la vecchia iconografia classica della trinità, di Dio, di Gesù: immagini di impegno sociale, più vicine alla realtà di oggi. Verso la fine del ’64 sono stato chiamato a dirigere Popular Photography Italiana che, in quel particolare momento, stava andando male. Eraun rischio molto grosso che ho accettato con l’entusiasmo di sempre e, adagio adagio, hotrasformato la rivista. Il continuo contatto con i fotografi mi aveva portato a capirli, perché si sentivano snobbati o addirittura neanche presi in considerazione dagli operatori culturali, dagli stessi editori, per cui mi sono reso conto che era il momento di poter creare una galleria, cioè una base di appoggio, un punto di incontro che li inserisse nei canali classici dell’arte.
Nel ’67 è nato “Il Diaframma”, prima galleria privata al mondo dopo la “291” di New York. Il Diaframma è il completamento della rivista, non è mai stato sostenuto da nessuno e non ha un ritorno se non con una limitata vendita di libri. E’ aperto a tutti i fotografi sia ai più giovani cha agli affermati; questi ultimi per dare uno stimolo, per essere pietra di paragone, per essere storia della fotografia: Henri Cartier Bresson, Robert Capa, Werner Bischop, André Kertész, Lee Friedlander. Tutti i fotogiornalisti italiani vi hanno esposto le loro opere; Antonioni stesso ha presentato la documentazione di “Blow up”. La galleria è divisa in due piani, nella parte sotto, non perché sia meno importante, ma perché essendo una “cave” aveva già il sapore dell’underground, abbiamo
cercato di riservarla ai giovani per dare loro la possibilità di farsi conoscere. Uno degli scopi del Diaframma è di essere un punto di partenza per delle mostre itineranti che facciano conoscere i fotografi italiani all’estero. Oggi siamo arrivati alla 170a mostra .
Nel ’68 ho avuto l’incarico di curare la parte culturale del SICOF, salone merceologico di prodotti di cine, foto, ottica. Ho organizzato una media di 25-30 mostre di fotografie per volta di estrazione diversa; da una parte tenevo conto del valore estetico, del divertimento sempre però con un certo tipo di impegno,
dall’altra aumentavo man mano la parte storica e sociologica». “La Fotografia: per me è stato investire emozioni e denaro non attendendo ritorni, questo mi
dà gioia ancora oggi: un modo sicuro di leggere le persone, quindi la vita. Investire un patrimonio per darlo ed essere felici. Nel corso della mia vita ho visto molti luoghi, inseguito molte passioni, realizzato molti sogni e conosciuto moltissime persone. Ripercorrendo ora gli anni con la memoria, scopro che non è difficile per me ricordare e raccontare quello che accadde, perché tutto quello che ho fatto allora e come l’avessi appena vissuto. Ogni viso, ogni scoperta, ogni emozione, è presente come in uno specchio, lo specchio della mia memoria. E in me è nato il desiderio di scrivere questi ricordi come dono a quanti mi hanno
conosciuto e hanno condiviso con me la grande passione per la Fotografia”
(LANFRANCO COLOMBO. Fotogrammi di una vita. Allemandi & C, 2010).